martedì 17 maggio 2016

A Tarda Ora

Il Silenzio era chiaro, solo la sua musica e quello spazio vuoto, libero dalle parole, libero dal ritmo, tra una canzone e l’altra, era l’ora giusta, l’ora in cui si sentiva in sintonia con il mondo. Abbassò lo sguardo sul suo polso sinistro, c’era solo la retroilluminazione bassa dello schermo a rompere quel nero che aveva intorno, sì, decisamente era l’ora giusta.
Si alzò dalla scrivania e decise di cambiarsi facendo meno rumore possibile, qualcosa di comodo, giusto per fare due passi, forse anche un maglione sarebbe servito, era freddino verso quell’ora, un po’ alla volta il piano iniziò a delinearsi nella sua testa, le sinapsi iniziavano a fare processi strani, forse per la stanchezza, forse per l’ora, preparò il caffè, mentre la caffettiera si scaldava e l’acqua al suo interno iniziava a muoversi si accese una sigaretta. Tra una boccata e l’altra iniziò a guardare fuori dalla finestra, nel buio, quelle piccole luci che spaccavano il ritmo del momento, iniziò a perdersi nel flusso, almeno finché la caffettiera iniziò a sbuffare riportandolo alla realtà, trasferì il contenuto della caffettiera in un thermos, lo mise dentro uno zainetto, ricordò di recuperare le chiavi e uscì di casa, stando ben attento a non fare troppo rumore con la porta d’ingresso.

In strada non c’era nessuno, non sentiva nessuno, qualche macchina in lontananza, qualche rumore difficile da identificare rompeva malvolentieri la cappa di silenzio che vestiva quel momento. Mentre camminava pensava a come amava quest’ora, quanto lui ci si sentisse attaccato, quanto si vedesse dentro quella tranquillità. Il suo cervello era tutto ed era niente, era concentrato su mille cose, ma il pensiero che prevaleva sugli altri era quello del passo, un passo, un altro passo, uno ancora, avanti, su. Mentre si avvicinava al suo obbiettivo, pensava che, forse, la notte era sottovalutata, forse era proprio la luce a essere considerata troppo importante, forse la necessità di riempire il silenzio era sopravvalutata, forse era meglio il silenzio. Forse.

Un altro passo.
Uno ancora.

Mentre camminava si accese un’altra sigaretta e iniziò a osservare mentre a ogni respiro il tizzone della sigaretta che andava in cenere si colorava di un rosso ancora più acceso, ma inesorabilmente si consumava, più luce, più colore, si accorciava. Camminava lasciandosi indietro pensieri strani e nuvolette di fumo, come a fare da traccia, mentre il fumo si diradava, forse quelle nuvolette contenevano una parte di sé, forse un po’ di pensieri.

Era arrivato al suo obbiettivo e come programmato non c’era nessuno, oh se amava quell’ora. Si sedette su una panchina a caso, si tolse lo zaino dalle spalle mentre il vento pungente gli pungeva il viso, l’aria salmastra gli era penetrata nelle narici e il rumore delle onde che colpivano i frangiflutti lo facevano sentire quasi a casa.

Rimase fermo a rispettare quel momento per troppo tempo. Era come bloccato. Il tempo continuava a scorrere, restava comunque poco, nonostante fosse trascorso. Era arrivato il momento. Aprì lo zaino, tirò fuori il thermos e se ne versò una tazza usando il coperchio. Era ancora caldo. Quel contrasto tra il vento, il freddo, il suono del mare e il liquido caldo che gli scendeva per l’esofago era perfezione pura. Eppure sentiva che c’era vuoto. Non era triste, ma sentiva che mancava qualcosa, guardandosi intorno capì: era l’unico che stava apprezzando quel momento. Nessuno aveva avuto la sua stessa idea o la stessa volontà di farlo, forse era l’unico in grado di farlo, forse era strano, ma per lui ne era valsa tutta la pena.
Restò lì fermo ad assaporare quel momento, riusciva a vedersi dal di fuori, si sentiva bene, si sentiva nel suo posto, nel suo ambiente.
Amava quell’ora, ma forse era l’unico. Forse per quello l’amava.
Abbassò lo sguardo verso il polso sinistro e guardò l’orologio, il tempo era passato.
Quasi non si accorse della figura che si stava avvicinando nella penombra.
La figura si sedette sulla stessa panchina. Lui passò all’ombra il thermos e la figura ne prese un sorso.
Intanto rimase a fissare il mare scuro.

 “Sapevo che ti avrei trovato qui”.

Lui sorrise con il coperchio vuoto tra le mani.

“E usa la caffettiera più grande la prossima volta”.

Forse. Forse lo avrebbe fatto.
Amava quell’ora. Forse perché era l’unico. Forse perché in realtà stava parlando alla sua mente ed era solo sulla panchina con i suoi pensieri. Forse.
Si accese un’altra sigaretta mentre il sole iniziava a fare capolino tra le onde e quella timida luce prendeva lo spazio di quel buio che cedeva rispettosamente il passo. Stava per iniziare un altro giorno.


Forse.

lunedì 11 aprile 2016

Colibrì

Teneva il colibrì tra le mani, facendo attenzione a non schiacciarlo, una piccola cosa, insignificante, fragile, eppure lo osservava come fosse tutto il suo mondo, l’unica cosa importante, assoluta in quel momento.

Era posato al muro, poco gli interessava di sporcare il giubbotto di calce, aspirava il fumo avidamente e a ogni boccata una piccola nuvoletta concentrata si andava dissipando nell’aria. Grossomodo come i suoi pensieri, ogni sua idea era liquida, non riusciva ad aggrapparsi a nulla, tutto gli scorreva attraverso. Odiava quella sensazione di mancanza di controllo sul suo flusso di pensieri, ma allo stesso tempo ne era saturo. A chi lo avesse osservato da fuori sarebbe sembrato il tipico ragazzo perso nei suoi pensieri, cuffiette, sigaretta, occhiali scuri. Il giusto modo per allontanare qualsiasi tipo di contatto, mettendo direttamente in chiaro che volesse restare da solo. E la gente che lo circondava percepiva quell’esigenza, si era creata una zona intorno a lui dove altre persone restavano in silenzio oppure se ne mantenevano a distanza cercando una zona più rumorosa, quasi avessero paura di disturbare i suoi processi mentali.

Il colibrì alzò la testa e iniziò a fissarlo, lui ricambiò quello sguardo e percepì che nonostante la sua piccolezza, quell’essere vivente aveva la sua stessa voglia, la sua stessa necessità di vivere. Quella sensazione lo lasciò interdetto, dato che nella sua abituale furia di pensieri non calcolava molto quanto un’altra creatura potesse avere dei punti in comune con lui. Sorrise. Non gli capitava molto spesso.

Lei era seduta sulla panchina all’altro lato della piazza, lo aveva notato. Il suo sguardo era magnetico. Osservarlo così estraniato dalla realtà l’aveva colpita dritta nello stomaco. Le aveva suscitato troppi pensieri. Quel viso diretto verso il cielo e perso nei suoi pensieri la faceva impazzire. In quel momento stava percependo qualcosa di strano. Si era persa a pensare a di tutto e di più, anche lei non riusciva a trovare un’ appiglio nella corrente di pensieri e sensazioni che la stavano attraversando. Quel mix la stava facendo implodere.

Il colibrì iniziò a sbattere le ali, a una velocità che l’occhio umano non sarebbe riuscito a percepire e dalle mani si alzò in volo. Giusto per lanciare un ultimo sguardo a colui che lo teneva in mano. Pronto a volare via. L’uomo pensava che gli sarebbe mancato. Sorrise ancora.

Lo vide osservare il telefono. Lo osservò sorridere. E sempre mentre sorrideva lo vide levarsi le cuffiette e guardarsi intorno. Iniziò a sorridere anche lei, pronta ad essere notata. Ma di punto in bianco il sorriso si trasformò in una linea diritta. Inespressiva.

Alzò lo sguardo dal telefono sorridendo, si levò le cuffiette e iniziò a guardarsi intorno. E fu quando la vide che il sorriso divenne ancora più forte. Le si avvicinò anche lei con un sorriso smagliante e non poté non notare ancora una volta il tatuaggio del colibrì sul suo incavo della spalla. Le mise un braccio intorno al collo e le domandò come fosse andata la giornata. Lei gli sorrise e si allontanarono passeggiando leggeri.


Lei era lì, seduta sulla panchina ad osservarli mentre se ne andavano camminando, pensava a quanto fosse fragile in quel momento. La sua vita. A quanto assomigliasse a un piccolo pezzo di cristallo. A quanto assomigliasse a un piccolo colibrì.

mercoledì 9 marzo 2016

Twist

Le mura in marzapane, il tetto creato con lastre di cioccolato, caramelle a scopo decorativo incastonate come pietre a vista, finestre di zucchero trasparente, pavimenti di focaccia. La strega era contenta della sua bella casa, ci aveva messo molto tempo della sua vita per ottenere la casa dei suoi sogni, molto lavoro, ma d’altronde una strega non aveva molto da fare.
Era la classica strega dei libri di fiabe: vecchia decrepita con un naso acuminato, piena di brufoli, con lo sguardo arcigno e con poca cura per l’igiene personale, una di quelle persone che preferiresti non vedere, forse per quello aveva deciso di abitare lontano da tutti, in mezzo a un bosco, di quelli fitti, pieno di pini. Era riluttante al contatto umano, dato il suo aspetto rivoltante, ma tutto sommato era una vecchina adorabile che tendeva ai suoi affari.
In quella piccola radura c’era tutta la vita di quella vecchina, la sua casetta, il suo orto, la sua pace e nessuno capitava per sbaglio da quelle parti a importunarla.

Quella mattina la strega era uscita per andare a raccogliere dei funghi per farsi una bella zuppa, ne aveva proprio voglia, anche perché vedendo quella casa ogni volta le saliva il diabete, quindi di buon mattino prese e partì alla ricerca nel bosco, ricordandosi di chiudere bene a chiave la casa, perché anche se era in mezzo a un bosco, preferiva sentirsi sicura, non si poteva mai sapere chi poteva capitare da quelle parti. Fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio, questo le diceva sempre la sua mammina.

Quella mattina destino volle che quella radura avesse due nuovi ospiti, due bambini che si aggiravano sperduti alla ricerca di qualcosa da mangiare probabilmente e quando per pura fortuna capitarono in quella zona aperta del bosco e videro quella casa, il loro cuore saltò un battito, si gettarono senza tante cerimonie su quella casetta e iniziarono a demolirla pian pianino, partendo dal garage. Non si capiva perché la strega avesse voluto costruire anche un garage, visto che macchine non ne aveva, ma probabilmente era solo per spirito di completezza, o così le andava. Coperti di zucchero caramellato dalla testa ai piedi e con tutta quell’energia nel sangue i due bambini sembravano due pazzi scatenati.

La vecchina già assaporava la sua zuppetta di funghi, mentre si dirigeva verso casa con il suo cestino pieno, stava pensando che cosa abbinare a quella minestrina calda, ed era indecisa tra le castagne e la zucca. Anche se le zucche crescevano a rilento e piccoline in quell’orto, purtroppo non era ben concimato. Presa totalmente dai suoi pensieri che quasi non si accorse dei due bambini che le stavano demolendo il garage.
Quando li vide però quasi ci rimase secca, osservare la sua creatura demolita da quei dentini bianchi e da quella fame insaziabile le fece perdere la testa.
Percorse gli ultimi metri che la separavano dalla casa a una velocità innaturale per una vecchina della sua età. Prese per la collottola i 2 bambini e gli domandò molto seccata il perché di quell’azione barbara.
I 2 bambini sporchi di zucchero dalla testa ai piedi risposero che era per semplice fame, e la strega si intenerì. Non riusciva a guardare il suo povero garage, ma non sarebbe riuscita neanche a guardare male i due ragazzi. Povere creature, probabilmente abbandonate a loro stesse, sperdute e affamate.
Decise di ospitarli, almeno finché non le fosse venuto in mente che farne o come aiutarli a ritornare dalla loro famiglia.
Preparò dunque la minestra con i funghi e la zucca, ma quando la diede ai ragazzini, i 2 bambini la gettarono per terra dicendo che preferivano la casa. La vecchina fece appello a ogni oncia di pazienza esistente nella sua persona per evitare di prenderli a sculacciate, meritate, per quell’ingratitudine, ma un sorriso del maschietto mise a tacere quel pensiero.
Una settimana dopo i 2 bambini erano ancora lì, la casa quasi non più,  con grande disappunto per la povera strega. Data la sua preoccupazione per la dieta che stavano seguendo i due ragazzini si avvicinò al più grande, gli prese il dito e disse:
“Scricciolino, devi regolarti, anche il dito è ingrassato, smettila di mangiarmi la casa, non è una dieta salutare, stasera promettimi che mangi il pane”.
Il bambino alzò i due occhi al cielo, non poteva tollerare quella vecchina rompiscatole, non ne poteva più.
“Mi darete una mano a fare il pane, che ne dite?”
Il viso dei due ragazzini si illuminò, e quasi all’unisono risposero “Sì”. Era l’occasione che attendevano da una settimana.
Si misero quindi a impastare, coperti di farina dalla punta delle orecchie ai piedi sembravano così carini, che la strega quasi si dimenticò di quanti disastri avessero causato. Gettò un paio di pezzi di legno nel forno, quel tanto che bastava per farlo salire a temperatura, quando il più piccolino gettò dentro al forno un pezzo di pasta.
La vecchina svalvolò: “Non ora! Il forno è ancora freddo!” e quasi si gettò nel forno per raccogliere quella piccola forma di pane.
I bambini entrarono in azione in contemporanea, il più vecchio assestò una bella pedata al sedere della vecchina e la spedirono dentro il forno, Il più giovane chiuse lo sportello con un movimento fluido, fissando il gancio. Si diedero il cinque.

La vecchina non poteva crederci, urlava, pregava, mentre la temperatura si alzava e iniziava a sudare, fino a quando la temperatura iniziò a diventare insostenibile, batté con forza i pugni sullo sportello, finché non iniziarono a comparire delle piccole bolle sulla sua pelle, l’acqua nel suo corpo raggiunse l’ebollizione, i capelli argentei presero fuoco e in mezzo alle sue urla disumane la strega bruciò come un ciocco di acero. Spargendo un profumo dolciastro per l’intera casa.
I 2 bambini aspettarono un’oretta prima di levarla dal forno per gettarla in giardino. Da lì poi finirono di demolire la casetta, quando anche l’ultimo pezzo di torroncino venne mangiato se ne andarono verso il bosco, lasciando quella radura, sperando magari di incontrare qualche lupo, il profumo che avevano sentito un paio di ore prima gli aveva messo voglia di carne.



Un po’ di mesi dopo un cacciatore passò per la radura, intravide le macerie di una casa, pezzi di dolce ammuffito dovunque, ma c’erano delle zucche enormi, di certo il terreno sarebbe stato molto buono da coltivare, decise di proseguire la caccia, ma stando molto più attento.
Incrociò quasi subito 2 poveri bambini, sporchi e affamati, sperduti nel bosco. Gli raccontarono subito una storia a riguardo di una vecchia strega cannibale con una casa di zucchero, alla loro prontezza di riflessi nel salvarsi da una fine orribile.
Al cacciatore si strinse il cuore, doveva aiutarli, povere creature. Il bosco poteva essere un posto veramente pericoloso, a conferma di quello che stava pensando intravide la carcassa di un lupo lì vicino, chissà che razza di animale poteva avere fatto una cosa del genere.
“Seguitemi” disse.
“Oh certo!” dissero quasi all’unisono i due bambini.

“Abbiamo fame”.

giovedì 4 febbraio 2016

Bugie di Pietra

Ormai erano 2 anni che il mondo conviveva con il morbo, fior fiore di ricercatori e scienziati avevano lavorato giorno e notte per ricercare una eventuale cura, ma non sembrava esserci soluzione a questa malattia.
Volgarmente la chiamavano il Silenzio, ti costringeva a stare zitto, Marco ricordava ancora il giorno zero, non c’era stato nessun preavviso, nessuna possibilità di fermare il contagio, ce l’avevano tutti, incubata da chissà che parte del proprio DNA, dormiente, pronta a presentarsi. Tutte le persone che erano sul pianeta in quel momento portavano i segni di quel giorno, non c’era stato modo di accorgersene, nessuna maniera di salvarsi, nessuna cura palliativa. Marco faceva parte dei fortunati che quel giorno avevano subito gli effetti minori. Medici e ricercatori erano riusciti a capire che in qualche maniera la malattia agiva sull’ipofisi e sul meccanismo di rilascio di ormoni che regolava le emozioni mentre la persona raccontava una bugia, la punizione era severa, il corpo si trasformava in pietra, estendendosi a seconda della pesantezza della bugia, dunque una bugia leggera al massimo ti lasciava un segno leggero sulla pelle, ma una importante, una imperdonabile, poteva costarti la vita, ognuno sul pianeta portava almeno un segno di quel giorno, i più fortunati almeno.
Quel giorno bugiardi seriali vennero condannati a una fine orribile, politici dopo conferenze e comizi, mariti con mogli, mogli con mariti, fidanzati, amanti, amici, vennero puniti, nel giro di un paio d’ore trasformati in statue di pietra, da quante ne avevano raccontate. Poteva sembrare una benedizione per la società umana, l’onestà obbligata, ma invece di portare progresso aveva fatto regredire l’umanità a un medioevo, non c’era possibilità di indorare la pillola, nessuna possibilità di perdono, se sbagliavi ne pagavi il prezzo. La punizione era certa. Le varie religioni erano tornate alla ribalta con la scusa della punizione divina e del pentimento che avrebbe curato la malattia, i rapporti interpersonali erano completamente rovinati, non c’era modo di poter mantenere una conversazione o un rapporto, dunque gran parte delle persone sceglieva il silenzio a tutto il resto. Quelli che avevano pagato di più questa situazione erano purtroppo i bambini, se gli adulti potevano scegliere il silenzio, i bambini ancora non capivano il significato di bugia e lo imparavano sulla propria pelle. Innocenti bugie bianche su chi avesse mangiato la marmellata o su chi avesse colorato i muri di casa adesso costavano centimetri di pelle, che inevitabilmente si trasformava in roccia.
Marco in tutto questo cercava di sopravvivere, ormai vivere era un lusso, il morbo aveva mandato in crisi l’economia mondiale, il commercio, anche le banche erano fallite, d’altronde come poteva un commerciante venderti qualcosa a un prezzo superiore o fare un affare, costretto a non poter raccontare bugie. Forse per qualcuno era il mondo perfetto, completamente onesto, ma talvolta forse tra persone necessitiamo di bugie stupide, del contentino per salvarci dalla cruda verità. La fortuna di Marco era quella di essere stato sempre considerato uno stronzo, che non aveva filtri, diceva subito quello che pensava, anche a costo di ferire la persona che aveva di fronte, ma anche lui portava qualche cicatrice, una parte dell’arcata sopraccigliare sinistra, l’avambraccio destro e la scapola sinistra erano di pietra ormai. Credeva che ne fosse valsa la pena, ricordava ognuna di quelle bugie, non le avrebbe mai dimenticate. L’avambraccio destro con suo nonno che gli aveva chiesto una mano a riordinare il giardino un pomeriggio, non gli andava proprio di aiutarlo, ma dato che gli voleva bene si era reso disponibile, e alla domanda del nonno “Hai voglia o hai di meglio da fare? Vedi che non ti trattengo se hai qualche impegno” rispose “ Nessun problema nonno! Sai che mi fa piacere aiutarti”. E alla sera quando l’avambraccio aveva iniziato a prudergli, era contento, ne era valsa la pena. L’arcata sopraccigliare sinistra gli era costata con un’amica che aveva bisogno di tempo per raccontargli dei suoi problemi e lui, pazientemente, rimase ad ascoltare anche se non poteva fregargliene di meno, ma doveva farlo per amicizia. La scapola sinistra invece era una bugia egoista che aveva raccontato a sua madre e quasi gli era costata la vita, uno dei primi giorni in cui il morbo aveva iniziato a presentarsi e ancora non si era capita la causa, sua madre gli aveva chiesto se fosse felice e lui le aveva mentito spudoratamente. Ma tutto sommato ne era contento, quel sorriso ne valeva tutta la pena.
Marco ora si frequentava con una ragazza di nome Anna, anche se il rapporto era molto strano, non si parlavano, per paura delle conseguenze, semplicemente trascorrevano tempo insieme, tempo di qualità, ma nessuna domanda personale o domande generiche, si conoscevano poco, ma stavano bene insieme. Forse anche troppo. Stava andando da lei in quel momento.
Viveva o meglio sopravviveva in un appartamento al terzo piano di un vecchio palazzo, ormai vuoto, gli altri inquilini erano scomparsi tutti, probabilmente trasformati in statue.
Entrando nell’appartamento lei lo accolse con un lungo abbraccio, fece partire un po’ di musica e mise la caffettiera sul fuoco. Oh se la amava, amava quei fianchi che andavano a tempo, amava anche il caffè, era in pace con se stesso, avevano un tipo di complicità molto particolare, fatta più di silenzi che di parole, fatta di sguardi più che di contatti, e lui ne impazziva. Come un assetato in un deserto guardava l’oasi, lui pendeva dalle sue labbra. E la complicità si sentiva in ogni cosa, fossero seduti in silenzio ad ascoltare buona musica, stessero camminando, facendo l’amore o qualsiasi altra cosa si creava un campo di energia elettrostatica intorno a loro, era evidente, sembravano essere arrivati ad un altro livello di coscienza, dove nessuno poteva toccarli, con uno sguardo si raccontavano giornate, sfiorandosi si passavano emozioni, scegliendo musica si raccontavano.
Tra tazzine di caffè, musica e occhiate passarono l’intero pomeriggio, sfiorandosi un paio di volte, non aprendo bocca. Concedendo al silenzio il rispetto che meritava, troppo terrorizzati per rompere l’equilibrio.

Ormai si era fatta sera e Marco aveva notato una certa pesantezza negli occhi di Anna, per cui decise che era ora di andare, fece per alzarsi, ma lei lo bloccò con il braccio, lo prese per mano e lo portò in camera da letto. Lo spinse con foga sul letto e quasi gli strappò i pantaloni di dosso, gli montò sui fianchi e si levò la camicetta, Marco non poté fare a meno di non notare per l’ennesima volta le macchie di pietra frutto di vecchie bugie sul suo corpo, un lato della clavicola sinistra, il gluteo sinistro e un lato della coscia destra, si domandava sempre quali potessero essere state le bugie che le erano costate quelle cicatrici, lei iniziò a esplorare il suo collo con la bocca, mentre con le mani gli teneva il volto stretto in una morsa, come a evitare che scappasse, le mani da lì si spostarono ai suoi capelli, aggrovigliandosi e sciogliendosi, senza proferire parola, lui intanto la osservava, trascinato da quella corrente di emozioni, voleva stringerla, farla sua in quel momento, ma lasciò che lei si prendesse il suo tempo. Le loro mani esploravano ogni curva, ogni insenatura e le sue mani facevano porto in quelle baie senza volersene più andare.

Stavano per addormentarsi.
Marco si assunse un grandissimo rischio: “Ti Amo”.
Anna rispose: “Ti Amo”.
E sprofondarono nel deliquio.




Nota dell’Autore(pffffff. Ahahah): visto che traumatizzo gran parte delle persone con i finali tristi, ne ho scritti due, anche perché più di qualcuno lo vuole. E qualcuno mi ha obbligato a scriverne uno di buono. Restando nel tema del racconto, spesso è meglio una piccola bugia che una verità pesante come una roccia, a voi la scelta su quale finale vi piaccia di più, vi rappresenta di più, vorreste che ci fosse. Il primo sarà quello triste, il secondo quello buono. Buona lettura.




Il mattino dopo era nuvoloso, la casa era vuota. Niente musica, nessuna caffettiera sui fornelli, erano ancora a letto, nella stessa posizione in cui si erano addormentati, c’era un silenzio nella camera, quasi come si fosse fermato il tempo nell’intera stanza. C’era pace, calma, tranquillità.
A mezzogiorno erano ancora lì, nessuna voglia di muoversi, anche durante tutto il pomeriggio, fino alla sera, fino al mattino seguente. Stavolta il sole fece capolino tra i balconi e una lama di luce tagliò a metà la stanza, andando a tagliare i due corpi immobili, grigi, abbracciati l’uno all’altro, come un’opera di qualche scultore neoclassico. In equilibrio. Da fotografia in un libro d’arte, con tanto di descrizione. Fuori dal palazzo la gente continuava a sopravvivere, noncurante, silenziosa.

“Che giornata di merda!” esordì un passante, che passava camminando lì sotto. Non aveva paura che il morbo lo punisse, era la sacrosanta verità.





Il mattino dopo era nuvoloso, una di quelle giornate da chiudersi in casa e vivere d’amore e chiacchiere, Anna si era svegliata ed era andata a metter sul fuoco la caffettiera, non prima però di avergli dato un pudico bacio alla base della clavicola, mentre lui ancora mugugnava mentre annaspava per uscire dalla fase del sonno profondo. Mise un paio di canzoni per svegliarsi, di quelle calme, rilassanti, poco ritmo, che ti accompagnano il risveglio, mentre Marco avrebbe preferito qualche canzone bella carica per svegliarsi.
Incespicò fino alla cucina dove c’era lei, radiosa, in un pigiama che era tutt’altro che sexy, ma a lui non importava nulla.

“Ho fatto il caffelatte, ti piace vero?”.
“Molto”.

Iniziò a sentire un prurito familiare sul polpaccio destro dove il morbo lo stava punendo per la bugia e iniziò a sorridere. Ne valeva la pena.

“Che giornata stupenda!” disse. Non aveva paura che il morbo lo punisse, era la sacrosanta verità.

martedì 22 dicembre 2015

Goccia.

Tirai su il cappuccio del giubbotto, maledetto io e la mia mania di uscire senza ombrello, quando l'arrivo della pioggia era così palese. Anche se da un lato mi piaceva prendere la pioggia, mi aiutava a pensare, pensare a tutto e a nulla, della pioggia amavo il catarsi, quel processo di purificazione accompagnato dal picchiettio dolce che ricopriva tutto e riempiva i timpani.
La pioggia noncurante, come il resto del mondo, iniziava a riempire ogni spazio o intercapedine disponibile, generando laghi e ruscelli dove poteva.
Io nel frattempo mettevo i piedi nei laghi, guadavo fiumi, altri laghi venivano superati saltellando, come se fossi terrorizzato dal solo contatto.
Il grigio scuro con le note di blu riempiva tutto creando quella cappa di tristezza per cui è nota la pioggia. A me, al contrario, quel colore riempiva gli occhi, l'umidità mi riempiva la bocca, il profumo di bagnato mi saturava le narici, il rumore mi entrava nel cranio e attutiva ogni pensiero. In quel momento mi prese l'allegria, vecchia compagna di avventure, chissà per quale motivo, so che iniziai a sorridere.
Abbassai il cappuccio e alzai la testa verso il cielo e lasciai che le gocce mi accarezzassero il viso, avevo tutti i sensi impegnati, ma quello che amavo di più era il tatto, il dolce colpire di quelle piccolissime dita sul mio volto, era impagabile.
Continuai a camminare in quel delta di rigagnoli che sfociavano a cascata sulla strada, ero saturo, pieno emotivamente.
Una delle migliori sensazioni possibili, essere completamente coinvolti in qualcosa, mi permetteva di mettere il cervello in pausa, lasciarmi andare alla corrente. Lasciarmi trascinare come le foglioline trasportate dall'acqua ai lati del marciapiede.
Continuavo a sorridere. E sorridevo. E quanto avrei continuato, ma iniziavo a bagnarmi troppo mentre la pioggia diventava un acquazzone. Cercai riparo sotto una pensilina dell'autobus, sotto la luce sporca di un lampione vecchio quanto mio padre. Dal sorridere passai al ridere, ridere di gusto, mi stavo sfogando, ridevo di diaframma, ogni muscolo coinvolto dallo spasmo e ridevo. Mi scompigliai i capelli con la mano sinistra, facendo volare gocce dovunque, anche se qualche temeraria rimase appesa con tenacia. E ridevo.
Almeno finché il leggero picchiettare della pioggia non venne interrotto da un rumore strano. Sciac, da un vicolo di lato, sciac convinto, sciac sciac impertinente, quel rumore di passi di corsa, mi bloccai a osservare l'entrata del vicolo.
Il suono si fece molto più convinto, finché una ragazza non uscì correndo dalla stradina. Si fermò a fare una piroetta sotto il lampione, ignara che la stessi guardando, che ci fosse qualcuno lì intorno. Mentre piroettava intravidi il suo volto, una frazione di secondo, mentre passava dalla luce fioca del lampione al cono d'ombra circostante. Vidi il suo sorriso, così perfetto, e gli occhi chiusi, intenta a pensare a chissà cosa.
Poi finalmente si accorse di me. Si immobilizzò, congelata. L'unica cosa in movimento su di lei erano le gocce d'acqua che impertinenti continuavano a scendere dalla punta dei suoi capelli, per poi fermarsi sull'asfalto. Mi stava fissando mentre la pioggia cadeva, poi capì la situazione, probabilmente vergognandosi si avvicinò alla pensilina.
Le feci spazio. La pioggia riempiva tutto, il suo rumore fortunatamente copriva il silenzio imbarazzante che si era creato. Finché non decisi di romperlo.
Sorridi spesso sotto la pioggia?”.
Quando sono sola sempre”.
E sei spesso sola?”.
Non quanto vorrei”, questo lo disse iniziando a guardarmi. Forse ero stato troppo aggressivo. Dovevo abbassare il livello della conversazione.
Anche io sorrido sotto la pioggia, mi piace” non so perché me la fossi rischiata così, francamente era una sconosciuta, carina, ma pur sempre una sconosciuta. Sembrava che a una parte di me non interessasse il distaccamento da quella situazione.
Prese lei le redini del discorso.
E sai cosa mi piace ancora di più? Soprattutto con la pioggia”.
Fare piroette?”
Non troppo a dir la verità, mi piace tornare a casa, farmi una bella doccia calda, e poi farmi un the, berlo ancora bollente e infilarmi sotto le coperte”.
Condivido alla grande”.
Con una risposta a cazzo del genere, completamente onesta, ma stupida quanto un paio di trampoli per un pinguino, avevo suscitato la sua attenzione.

Lei iniziò a fissarlo, vedeva delle gocce solitarie scendere dalla sua fronte, posarsi sulle sue labbra, e quanto le invidiava, le avrebbe raccolte tutte. Dall'altro lato lui osservava i suoi capelli lunghi, che gocciolavano un po' dovunque, e quelle piccole temerarie scendevano a farle il contorno, segnando linee sul suo collo, curve sul suo petto, e le avrebbe seguite dovunque, viaggiando su quelle strade, perdendosi in quel viaggio. Erano due perfetti sconosciuti, eppure sembrava che si conoscessero da sempre. Che avessero vissuto in luce di quel momento.
Poi lei ruppe il silenzio.
The caldo in compagnia?”
Perchè no?”
Abito qua vicino, basta prendere una delle vie laterali e siamo a casa mia”
Andiamo allora”
Mi prese per mano e mi iniziò a trascinare quasi correndo, attraverso pozzanghere che ormai non erano più laghi, attraverso fiumi che altro non erano che rigagnoli, non ero più terrorizzato dal pestarli, attraversavo tutto, senza rispetto. Stavamo correndo nel vicolo, nella penombra, sotto la pioggia, entrambi sorridendo. Pensavo al the e alla bustina in infusione, quel leggero macchiarsi dell'acqua trasparente, il lento diffondersi dei pigmenti, come le radici di una pianta che crescono, la lenta diffusione del profumo. La lentezza nel berlo. Le scottature. Il calore.
Lei stava pensando al calore della fiamma sul bollitore, calore della tazza in ceramica, il dolore alle mani nel tenerla, il calore della casa, la sensazione di bruciore nello stomaco dell'acqua bollente. La lentezza nel berlo. Le scottature. Il calore.
Si guardarono per mezzo secondo sorridenti e capirono tutte le promesse che erano celate sotto quella tazza di the. Accettarono entrambi a occhi chiusi. Avrebbero bevuto quel the caldo. Firmarono senza riserva tutte le clausole che quell'incontro celava e se ne assunsero le responsabilità. Correvano sorridendo sotto l'acqua che ormai era passata in secondo piano. Ormai avevano passato questo livello di sensibilità. Erano dentro in casa. Seduti a fissarsi di fronte al vapore, con le mani a coppa. Gocciolanti, sorridenti.

Tempo da lupi”, questo pensava l'autista dell'autobus, era un po' scocciato, odiava lavorare con quel tempo, la pioggia fitta allagava sempre le strade, e lui era costretto a sollevare delle onde enormi al suo passaggio, aggiungici poi che la compagnia in quel turno serale era quella che era, solita anziana signora ansiosa di fare chiacchiere, classica cliente insopportabile, messa lì appunto per spiegare il significato del cartello alla sua destra “Non disturbare il conducente”. Ma lei impertinente continuava a parlare della sua vita, come se a lui potesse interessare qualcosa. “Proprio un tempo da lupi” “Eh già, il mondo sta andando a pezzi, anche le piogge non sono più quelle di una volta, basta che piova per un'ora e si allaga qualcosa”. “Piove, governo ladro” pensava il conducente, quella donna era un luogo comune che aveva preso vita. “Grazie a dio è l'ultima mia corsa, non vedo l'ora di finire a casa al calduccio”. Intanto la signora faceva cadere le parole in testa al conducente come fosse pioggia, forse con più frequenza che le gocce che cadevano fuori. “Signora gentilmente può evitare di disturbarmi per un secondo? Non vedo molto con la pioggia fitta. Poi qui è pieno di pozzanghere. Speriamo che il Comune si decida a riempir..”. Proprio in quel momento i due ragazzi uscirono di corsa da un vicolo laterale, il conducente provò anche a frenare e ce l'avrebbe fatta se non fosse stato per l'eccessiva acqua che c'era sull'asfalto.

Luce improvvisa. Schianto, poi più nulla.

Lei era stata scaraventata 4 metri più avanti, probabilmente l'urto le aveva spezzato sul colpo le vertebre cervicali, il viso ancora contorto in un qualcosa che sotto le bruciature da contatto nascondeva ancora la parvenza del sorriso. Neanche aveva fatto in tempo a rendersene conto. Sul colpo, doveva aver percepito solo il calore dei fari a 3000 lumen sul corpo. Poi più nulla.

Lui era stato più sfortunato, era stato colpito dalla forza d'impatto e si era sicuramente fratturato il bacino e un paio delle ultime vertebre, in compenso le costole gli avevano perforato il petto. Si stava dissanguando. Lentamente il sangue si mescolava con l'acqua, e correva intorno, si diffondeva come il the nell'acqua calda, lentamente la vita lo stava lasciando. Steso con il viso verso il cielo ormai nero, le gocce scendevano sul suo viso. Nonostante tutto, noncurante della situazione, il suo labbro si incurvò a formare un sorriso, mentre dalle dita cadevano gocce di sangue che creavano radici che lentamente si dirigevano ai lati della strada. Una goccia cadde sul suo labbro e gli entrò in gola. In quel corpo martoriato che stava dipingendo la strada. Quando la goccia d'acqua gli scese per la gola pensò che forse era meglio il the caldo.
Sicuramente era meglio.
La lentezza nel berlo. Le scottature. Il calore.


giovedì 10 dicembre 2015

Crepe

10 minuti e sono fuori”, l'unico pensiero fisso mentre l'insegnante blaterava qualcosa a riguardo della politica interna inglese nella 2 guerra mondiale, completamente in un altro pianeta, pensiero stabilizzato nella pausa, un desiderio inarrivabile perché sapevo che quei 10 minuti sarebbero stati eterni, mi sarebbe spuntata la barba nel frattempo, già lo sapevo, forse per quello iniziai a strofinarmi il mento con forza. Intanto nella penultima fila a destra iniziavo a sentire rumore di carta plastificata, qualcuno aveva ceduto allo stomaco immaginavo, ma stava facendo troppo rumore e l'insegnante per quanto fosse stato preso dal suo delirio di sapere l'avrebbe beccato. Era lei, intenta a scartare un pacco di caramelle gommose, stupidotta pensavo, anche perché il profumo di quelle cose era troppo forte, quel miscuglio di finta frutta e zucchero si sarebbe sentito a km di distanza.
Non la volevo calcolare più di tanto, mi aveva spezzato il cuore dopo che stupidamente ci avevo creduto, non volevo darle il beneficio di prendersi un mio sguardo, anche se ultimamente percepivo che c'era qualcosa che non stava andando bene, c'era qualcosa nel suo modo di fare che mi lasciava perplesso, come se fosse successo qualcosa nel suo equilibrio perfetto. Una parte di me ne era ancora interessato, l'altra stava sbattendo i piatti insieme alla scimmietta, tanto per far capire quanto gliene fregasse.
Naturalmente venne beccata subito dal professore che probabilmente aveva già una brutta giornata di suo, lo vidi caricarsi, prendere la forza dalla punta delle scarpe, vidi il brivido risalire sulla schiena per poi sfociare sulle sue labbra.
Iniziò il delirio, ramanzina, parole su parole, e dall'altro lato lei, in religioso silenzio a prenderle tutte, con quell'aria strafottente che me l'aveva resa stupenda, almeno fino a poco tempo prima. Almeno finché quasi a rallentatore il professore lanciò una bomba “Incapace di prestare attenzione a nulla, incapace di stare attenta a qualcosa, nel tuo mondo perfetto, c'è spazio per il resto dell'umanità?”. Oh se era riuscito a fare una crepa nello scudo di strafottenza che lei aveva eretto, oh sì, la vidi riemergere dall'indifferenza, vidi lo sguardo dell'animale ferito, quasi sorrisi, mi aspettavo una reazione abbastanza esplosiva, come un animale messo all'angolo, mi aspettavo mordesse, invece riuscì a sorprendermi, ancora una volta. Vidi il suo labbro inferiore tremolare, gli occhi lucidi, e, contro ogni previsione, scoppiò a piangere.
Naturalmente tutti iniziarono a fissarla come se venisse da un altro pianeta, qualcuno sorridendo, qualcuno intristendosi, tutto sommato l'intero gruppo prese le distanze da quella manifestazione emotiva così cruda, probabilmente non ne capivano il motivo e la emarginarono con gli sguardi.
Capendo di non riuscire a reggere la situazione si alzò di scatto e uscì dalla classe, quasi di corsa, per fare come fanno i bambini quando sentono dolore, nascondersi dagli sguardi, perché capiscono che la manifestazione del dolore è sintomo di debolezza, quando il più delle volte è liberazione, e se hai la sfortuna di incontrare una persona empatica nel frattempo, forse ne esci meglio di come sei entrata.
Mi ci vollero 2 secondi per pensarci poi decisi.

Ero uscita dalla classe di corsa, le mani sotto le ascelle e avevo deciso di rifugiarmi nell'unico posto in cui potevo essere tranquilla, il bagno. Non riuscivo a fermare le lacrime, ero presa dalla tristezza, ero rimasta anche sorpresa che un paio di parole fossero riuscite a farmi quell'effetto, cosa poteva saperne lui di quello che avevo sentito, di quello che avevo capito e interpretato da quelle frasi buttate lì? Avevo bisogno di qualcuno, avevo bisogno di nessuno.
Mi chiusi dentro il bagno e restai lì seduta sul cesso a piangere, senza alcun apparente motivo, neanche io capivo quello che stavo provando, fatto sta che non riuscivo a fermare quelle lacrime e la cosa aggiungeva rabbia alla tristezza.
Senti bussare, non era stato un suono deciso, come a dire di sbrigarsi, era un suono gentile, quasi a chiedere “Sei lì?”, aprii la porta e lo vidi, era lì, era venuto per me, aveva capito, non disse nulla, entrò e chiuse la porta, restò lì a guardarmi con quegli occhi profondi che più di una volta mi avevano attraversato facendomi male e curandomi, lui sapeva che non avrebbe dovuto dire niente, era lì solo per mettersi tra la tristezza e me, a farmi da scudo anche se non lo meritavo. Gli avevo spezzato il cuore e lui era comunque lì, non mi avrebbe parlato comunque, non lo aveva fatto per un paio di mesi e non l'avrebbe fatto neanche ora, soprattutto ora. Perché capiva, aveva sempre capito.
Lo guardai negli occhi, come erano profondi, un pozzo dove cadere in eterno, restare lì in caduta libera, alla fine sarebbe rimasto lui a reggermi, sarebbe rimasto. Ancora non disse nulla, mi fissava e basta. Io ricambiavo, ma non con la stessa intensità, non ci sarei mai riuscita.
Avevo bisogno di prenderlo e farlo mio, metterlo dentro di me e fargli percepire tutto, avrebbe capito tutto, capito il perché delle mie azioni, il perché dei miei pianti, il grande perché della mia vita. Cercavo il contatto, così mi alzai e lo abbracciai, senza dire nulla, e lui restò lì immobile, non mi strinse, come un manichino, rimase lì, immobile, inamovibile.
Forse avevo esagerato, forse. Ma restai così stretta, cercando di farlo entrare nel petto, stringendolo. Mi separai, e l'effetto fu come quello dello strappo di un cerotto da una ferita fresca, mi sentii scoperta. Mi risedetti e abbassai lo sguardo risollevata e triste. Fu proprio in quel momento che sentii la sua mano, era sotto il mio mento e stava spingendo con delicatezza verso l'alto, verso i suoi occhi, quando incrociai il suo sguardo sollevai la mano verso la sua, posata sulla mia guancia destra, e nell'esatto momento in cui lo toccai percepii una scossa di freddo. Dalla punta dei polpastrelli, giù per il braccio, tra le costole, dritta nel cuore, per dividerlo, per farmelo a pezzi.
Proprio quando lo toccai ritornai alla realtà, ero seduta sul cesso fissando la porta, non c'era nessuno, non c'era mai stato nessuno, ero sola e ripresi a piangere, stavolta per un buon motivo.

Suonò la campanella e mi girai verso la penultima fila, verso il banco vuoto, una parte di me era da lei a sollevarla dai suoi problemi, l'altra era lì seduta pronta a prendere le cuffie. Le raccolsi, me le misi insieme alla cartella e camminando uscii da scuola.
Appena uscito mi girai e rivolsi lo sguardo verso la finestra del bagno femminile, sapevo che era lì, mi girai e andai avanti.
Forse in un altro universo sarei stato lì a reggerla, ad alleviare la sua tristezza, ma in questo avevo le cuffie e stavo camminando.


Fischiettavo.

domenica 6 dicembre 2015

Punti di Vista

Era una gran bella giornata, sentiva il sole forte sulla pelle, scaldava veramente tutto, poteva ringraziare di avere gli occhiali scuri e subito si mise a ridere della sua battuta. Aveva deciso di andare a fare una passeggiata, sapeva che sarebbe finito al solito bar, ma amava quel posto, soprattutto per il rumore, tra tazzine e bicchieri aveva la giusta colonna sonora per lasciarsi andare ai migliori pensieri. Pensava a quanto sfortunato poteva essere una persona sorda, incapace di percepire quella che poteva essere la voce di una ragazza o il canticchiare degli uccelli o anche lo stupido rumore del vento. Ringraziò la sua fortuna.
Intanto era arrivato al bar, andò a sedersi al solito posto e Michele che lo aveva visto arrivare andò subito a prendere l'ordinazione.
Ehi Giorgio, il solito?” “Ovviamente”.

Non sapeva come poteva fare per smettere di piangere, Claudia non ne poteva più di quel modo di fare del mondo, dei ragazzi in generale, non ne poteva più del sole che le stava solo dando fastidio agli occhi arrossati, in più aveva dormito uno schifo quella notte, decise che aveva bisogno di parlarne e non con qualche amica superficiale o qualche consigliere dell'ultimo minuto, aveva solo bisogno di parlare e che qualcuno la ascoltasse, così decise di fare la cosa più semplice del mondo, entrò nel primo bar che trovò, convinta di potersi sfogare, almeno con il barista che nella sua professione ascoltava e dava ragione a eroi e a malvagi almeno finché consumavano.
Mise la mano sulla maniglia, stranamente fredda, ed entrò. “Buongiorno”. Claudia quasi grugnì un “ 'Giorno”, Michele subito capì la situazione e prese l'ordinazione, poi iniziò a servire gli altri clienti che erano appena entrati, e li accolse con un sorriso smagliante.
Claudia pensò al succo all'ananas, non si ricordò di dove aveva letto che l'ananas bruciava i grassi, e anche se fosse stato vero non gli interessava molto. Al banco, con il succo in mano, iniziò a guardarsi intorno, c'erano un paio di coppiette intente a parlottare del più e del meno, Claudia non sapeva se odiarli o esserne invidiosa, poi la sua vista si posò sul tavolino all'angolo, lì c'era un ragazzo con addosso delle cuffiette e gli occhiali da sole, con lo sguardo perso nel vuoto.
Forse più per curiosità morbosa che vero e proprio interesse, Claudia prese il succo e si diresse verso il tavolino d'angolo. “Posso sedermi?”, il ragazzo fece finta di nulla oppure non l'aveva sentita, così gli toccò la spalla, “Scusa posso sedermi?”. Giorgio riemerse dal flusso di pensieri indotti dalla musica, si levò le cuffiette e le rispose “Certo, tranquilla”. “Immagino tu voglia parlare” disse Giorgio, Claudia si sentì presa in contropiede, beccata subito, “Hai ragione”, Giorgio sorrise e le rispose “Non c'è problema, farebbe piacere anche a me fare conversazione, di cosa vuoi parlare?”.
Del mondo, di quanto le persone siano materiali, di quanto non riesca a sentirmi a mio agio in questo sistema, so che è molto complicato come argomento, ma non c'è niente di meglio di parlarne con un, perdonami, sconosciuto”.
Non ti devi scusare, ma devi darmi più dati, è troppo generico così il discorso, cosa potrei risponderti? L'unica maniera che abbiamo di interfacciarci con la realtà e attraverso le parole e non è che sia sempre facile esprimere i propri pensieri o sensazioni”
Appunto per questo faccio fatica a spiegarti, in parole molto semplici, sono stanca di essere valutata per quello che mostro più che per quello che avrei da mostrare” “Da un lato è anche colpa tua, non fraintendermi, ma sei la prima responsabile delle valutazioni che gli altri danno di te, forse dai troppo valore alla tua apparenza più che cercare di dimostrare la tua sostanza” “Non faccio nulla, ma non riesco mai ad avere un discorso, per esempio con i ragazzi, che sia un filino profondo, tutti a chiedermi o il numero di telefono o a cercare di finirmi nei pantaloni e francamente non riesco più a sopportarlo”.
Giorgio sospirò e le rispose “So che non è facile, ma devi cercare di non dare l'impressione che sia quello il tuo modo di fare generico, cioè devi evitare di dare l'impressione di essere materiale, per esempio sono 5 minuti che parliamo e non ti sei ancora presentata, ma allo stesso tempo ho notato che ogni volta che parli gesticoli molto, e ogni volta che gesticoli i tuoi braccialetti tintinnano, perché li hai indossati?” “Mi chiamo Claudia e ho messo questi braccialetti perché mi piacciono!”.
Claudia si sentì messa al muro, il ragazzo era molto più profondo di quello che poteva aspettarsi. “Io Giorgio, anche se non me lo hai chiesto, comunque la tua non è una risposta, il motivo vero è che li hai indossati perché ti fanno sentire più carina e più carina, per te, vuol dire più sicura di te stessa” “Forse. Ma questo cosa centra con il resto del mondo?” “Che il mondo inavvertitamente ti giudica materiale, con così poco da offrire sul piano della profondità morale che decide di avvicinarti solo persone materiali, perché è quello che stai chiedendo. Chiedi attenzioni grazie al tuo aspetto fisico e non puoi poi sorprenderti”.
Claudia iniziava ad averne abbastanza. “Cosa ne puoi sapere? Probabilmente anche tu con tutti questi discorsi profondi che hai fatto, in realtà saranno 5 minuti che mi guardi le tette, ed è ancora di più che indossi quegli occhiali da sole qui al coperto, sicuramente anche tu sei più materiale di quello che pensi”.
Giorgio sorrise “Finora non ne ho ancora avuto l'occasione, ma devono essere una gran cosa se avrei dovuto farci attenzione! Credo che il motivo principale per cui non ti trovi in questa società sarà il conflitto, che ancora non hai risolto, tra il tuo essere materialista, amare gli sguardi lascivi dei ragazzi e il tuo essere alla ricerca di qualcuno che non ti giudichi per quello che fai vedere. Capisco il tuo modo di sentirti, ma devi cambiare il tuo modo di affrontare la vita. Tutto qui”.
Giorgio detto questo si alzò e si diresse a pagare, si avvicinò a Michele e pagò anche il succo all'ananas di Claudia, poi mentre usciva Claudia notò che si appoggiava al muro, la sua mano scivolava sulla parete, come se fosse alla ricerca di un contatto. Claudia pensò che fosse ubriaco già a quell'ora del giorno, poi si accorse che aveva bevuto un te caldo, decise di andarsene, prima passò di fronte a Michele e lui la richiamò. “Lo conoscevi?” “Veramente no” “Giorgio è una bravissima persona, ha una sensibilità unica, e un'intelligenza fuori dalla media, non ho dubbi sul fatto che deve essere stata una buona chiacchierata, è proprio vero quello che dicono su quelli come “lui” “Come lui in che senso?” “Non te ne sei accorta?” “Di cosa?” “Del fatto che non ci vede, da quello che so dovrebbe essere cieco dalla nascita”. L'unica cosa che riuscì a dire Claudia fu “Che sfortuna”, quando in realtà avrebbe voluto dire “Quanto sono stata stupida!”.


Giorgio stava sorridendo, anche se era triste per la ragazza, non c'è peggior sordo di chi non vuol sentire, ma non era riuscita ad accorgersi del suo handicap, il che riconfermava la sua tesi, oppure era stato bravo lui a non farlo capire. Stava pensando a quanto certe volte le persone non si rendano conto di essere loro in prima posizione a essere il proprio problema. Avrebbe voluto vederla, ma forse era stato meglio così, non aveva sbagliato di un millimetro il suo giudizio, non si era fatto ingannare. Sentì il calore del sole sulla pelle, levò gli occhiali e restò un paio di minuti a guardare il sole con i suoi occhi spenti che brillavano di luce riflessa. Sorridendo, era uno dei pochi che lo aveva visto veramente, solo percependolo, senza averne mai visto la luce.